Shockjournalism, c’era una volta

Tanto tempo fa, mentre, insieme ad altri media-attivisti, mi occupavo del terremoto a L’Aquila, registrai il dominio Shockjournalism e coniai il termine, ispirato da conversazioni al 3e32, con Janos e molti altri. Si parlava, fra l’altro, di The Shock Doctrine. E allora venne fuori shockjournalism.

Che, badate bene, non voleva essere sinonimo di sensazionalismo. Anzi. Ecco la definizione che proponemmo:

shock journalism [ʃɒk dʒɜːnəlɪzm]

1. situazione in cui si trova l’informazione in seguito ad un evento traumatico (catastrofi naturali, sociali, economiche, guerre). La comunicazione è frammentata o addirittura interrotta. Emergono pseudo-giornalismi embedded o scandalistici.

2. metodo di analizzare e documentare il seguito di un evento traumatico (es. la gestione dell’emergenza). Si (ri)costruiscono reti informative dal basso e indipendenti. La comunicazione è condivisa. Si analizzano i meccanismi e gli ostacoli di trasmissione e circolazione delle informazioni e le tecniche per il controllo delle stesse.

Uno dei prodotti di questo shockjournalism è Comando e controllo, un documentario con il quale si analizzavano l’uso e l’abuso della decretazione dello stato d’emergenza, partendo dal caso specifico del terremoto aquilano e della sua gestione per arrivare alle sue più estreme conseguenze.

Il progetto di shockjournalism è fermo, il che non significa che sia “morto” come concetto. Anzi: mi rendo conto che ogni volta che scrivo in maniera approfondita di qualcosa, cerco di farlo come “reazione” all’emergenza, con gli anticorpi che quell’esperienza mi ha fatto conquistare. E dunque, ecco come quell’esperienza ha influenzato il mio lavoro su Blogo e nel giornalismo in generale: moratorie dello shock, attenzione alle fonti, lotta a certi titoli, condizionali e pacatezza anche nella fretta, rispetto delle norme giornalistiche ma anche di quelle del buon senso, offerta di risposte alle domande del lettore attraverso tutti i canali possibili e immaginabili, il lettore, l’utente in generale come motore primo del lavoro giornalistico, tutte le volte che è possibile (si spera sempre di più), l’esigenza di recuperare qualità (da cui Slow News, che è un po’ un’evoluzione lenta di shockjournalism).

C’era una volta shockjournalism, e c’è ancora.

Nell’immagine, il pezzo che Giampaolo Colletti pubblicò su Nòva24 nel 2009 parlando della mia esperienza a L’Aquila, insieme a quelle di altri filmmaker. Qui il pezzo integrale in pdf.

Shockjournalism

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