Il digital divide è nel cervello

Il digital divide è una questione culturale

Secondo la definizione più diffusa, ben riassunta dalla Treccani, il digital divide o divario digitale sarebbe la sperequazione esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione e chi ne è escluso, totalmente o parzialmente. È un neologismo (se si può definire ancora tale un concetto che risale agli anni ’90).

La Treccani riporta anche la storia del digital divide, che nasce, come concetto e come terminologia, con la presidenza di Bill Clinton negli USA (1993-2001).

Le ragioni del divario digitale sono molteplici. In Italia si ha la sensazione che si pensi che la questione si risolva digitalizzando tutto e garantendo l’accesso alla banda larga.

Ma il pre-requisito per abbattere il divario digitale non è tecnologico o di infrastruttura. Il pre-requisito è culturale. E di alfabetizzazione alle tecnologie.

Da qualche tempo a questa parte mi piace utilizzare la metafora della lavatrice o dell’automobile per spiegare come utilizziamo le tecnologie di solito. Più o meno, una lavatrice la sappiamo far partire tutti: è un elettrodomestico, ha le istruzioni, si mette il detersivo, si sceglie il programma, si carica, si preme un pulsante. Pochi sanno come funzionino la pompa di scarico o la resistenza della lavatrice. Ma almeno una lavatrice sta ferma.
Le automobili, invece, si muovono. E a discapito di tutti coloro che le utilizzano per andare da un punto A ad un punto B, non sono elettrodomestici. Possono anche uccidere (difficile, invece, trovare una vittima causata da una centrifuga sbagliata). E pochissimi sanno fare una frenata d’emergenza.

Bene. Per quel che vedo fra corsi e consulenze, utilizziamo la tecnologia dell’internet, Google, Facebook, i presunti servizi gratuiti delle OTT – alimentando i loro walled garden – come una lavatrice o un’automobile.

Il pre-requisito per abbattere il digital divide è la cultura. L’alfabetizzazione. La spiegazione delle tecnologie. Spiegazione che – non me ne vogliate, è la mia anima giornalistica che parla – non può essere demandata alle medesime OTT (il corso digitale di Google, quello di Facebook e via dicendo). A meno che non siamo quel genere di persone che si vuole far spiegare un prodotto solo dal produttore, disposti a credergli in maniera fideistica.

La transizione ai digitali nei giornali italiani è il classico esempio che dimostra come si facciano le cose male, a caso, senza aver capito veramente, senza voler nemmeno provare a capire. Giornali traslati su internet a caso. Architettura dell’informazione ignorata. Contesti mai creati. Valore del link distrutto a colpi di link building esterno o interno. Competenze mai messe insieme ma tenute separate come compartimenti stagni. Strategie di monetizzazione da cavallette (arbitraggio spinto) senza alcuna generazione di valore aggiunto. E non è che le aziende private siano da meno. Siti senza alcuna cura per l’esperienza utente, serate con decine di presunti influencer che twittano fra di loro con hashtag improbabili e di nessun interesse per il pubblico dei consumatori, preconcetti (provate a chiedere alle web agency se hanno letto almeno la guida SEO di Google o la guida per i quality rater o entrambe. Letto e capito, ovviamente. Provate a chiedere ai consulenti come e quando si sono sporcati le mani con progetti loro).

Il fatto, poi, che l’editoria cosiddetta mainstream si rifiuti categoricamente di sperimentare in maniera seria nuovi modelli di business – no, scusate, il paywall del Corriere non è una sperimentazione. Il paywall di The Information è una sperimentazione –, e che si continui a considerare il mondo diviso in due, come se analogico e digitale non fossero parti del medesimo reale e come se valessero buone pratiche diverse dimostra che il digital divide, per prima cosa, ce l’abbiamo nel cervello.

Fideisti tecnoentusiasti positive thinker o luddisti tecnopessimisti rifiutano un approccio laico al digitale e accolgono le istanze di “cambiamento” dei grandi oligopolisti della Silicon Valley come se la fantascienza fosse a portata di mano. E come se si dovesse temerla per forza, o per forza idolatrarla. Sono tifosi. Anzi, sono religiosi. La fantascienza a portata di mano è sempre la stessa narrazione da marketing che deve gonfiare la bolla senza farla esplodere – come scrive, in maniera brillante, Sam Lessin su The Information. Si era dimenticato, Lessin, che già nel 1988 la Apple aveva diffuso un video (se volete, è quello che apre questo post) che si intitolava Apple Knowledge Navigator. Ricordate che, secondo i guru di Cupertino quello avrebbe dovuto essere il futuro da lì a 25 anni. Cioè nel 2013. Siamo nel 2016: pensate a Siri.

E poi a Marte, alla realtà virtuale, alle macchine che guidano da sole, alle esaltazioni dei magnifici visionari. E poi rallentate.

La next big thing è già fra noi: va capita, studiata, resa davvero open (non nel senso che intende Facebook: Mark Zuckerberg sta costruendo una gabbia dorata a beneficio suo e dei suoi colleghi e investitori, non per il bene dell’umanità). Bisogna scappare dalle narrazioni e tornare nel mondo reale (come dovrebbero fare politica e giornalismo, per capirci).

Il digital divide ce l’abbiamo nel cervello.

Il digital divide è una questione culturale

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